nestore45
00sabato 28 marzo 2009 06:54
Nel mondo della Bibbia, non esistendo un al di là, la retribuzione per il bene e il male compiuto avveniva su questa terra. Il bene era compensato con una lunga vita, abbondanza di figli, prosperità. Il male veniva punito con vita breve, sterilità e miseria, e la colpa dei padri era punita nei figli fino alla quarta generazione, secondo la teologia del libro del Deuteronomio: “Io “Yahvé tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano” (Dt 5,9). Il profeta Ezechiele contesta questa visione della vita ed afferma che Dio retribuisce sempre e subito le azioni dell'uomo e che ognuno è responsabile del suo agire: “Colui che ha peccato e non altri deve morire; il figlio non sconta l'iniquità del padre, né il padre l'iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giustizia e al malvagio la sua malvagità” (Ez 18,20). Quindi ad ognuno il suo. Teologia, questa del profeta Ezechiele, semplice ed accettabile, ma contraddetta dalla realtà che non si presenta così. Per questo nella polemica interviene un autore, che è rimasto sconosciuto, il quale scrive il Libro di Giobbe proprio per contestare questa idea teologica dove si afferma che il buono è premiato ed il malvagio punito, e presenta un uomo pio e buono al quale capitano tutte le disgrazie di questo mondo (compresa quella degli amici che lo vanno a consolare ed offrire i loro buoni consigli: “Ne ho udite già molte di simili cose! Siete tutti consolatori molesti… Anch’io sarei capace di parlare come voi, se voi foste al mio posto: vi affogherei con parole!”, Gb 16,2.4) per dimostrare che non è vero che i buoni vengono premiati. La novità di Daniele A tirar fuori dal vicolo cieco in cui queste dispute teologiche avevano condotto, sarà un anonimo autore del II secolo, il quale per dare coraggio ai martiri della persecuzione religiosa del terribile Antioco Epifane introduce un nuovo, rivoluzionario elemento, quello di un ritorno alla vita dei morti per il giudizio finale limitato ai giusti del popolo giudaico: “Molti di quanti dormono nella polvere si desteranno: gli uni alla vita eterna, gli altri all'ignominia perpetua” (Dn 12,1 2). E' la prima volta che nella Bibbia compare il termine normalmente tradotto con “vita eterna”. Alla vita eterna, cioè per sempre, l'autore contrappone una “ignominia perpetua”, vale a dire una disfatta definitiva, irreversibile, il fallimento definitivo. L'espressione “ignominia o sconfitta perpetua” si trova nel salmo 78,66, senza alcun senso di sopravvivenza eterna . Fuori della Bibbia ebraica, l'idea di resurrezione si trova nel Secondo Libro dei Maccabei (160 a.C.?). Nel racconto dell'atroce martirio della madre e dei suoi sette figli, viene espressa una fede per la resurrezione ad una “vita nuova ed eterna” (2 Mac 7,9) per i martiri, vita però che viene esclusa per i persecutori: “per te la risurrezione non sarà per la vita” (2 Mac 7,14): la morte sarà eterna, cioè definitiva. Quel che da queste ipotesi teologiche si ricava è che la fede nella resurrezione dei morti è una conseguenza della fede nel Dio Creatore: la resurrezione viene intesa come una nuova creazione dell'uomo intero. Queste nuove teorie però non verranno accettate, anzi verranno condannate come eretiche e rifiutate dalla gerarchia allora al potere, il gruppo dei Sadducei in quanto non contenuta nei primi cinque libri della Bibbia , ma se ne approprieranno i Farisei. Laici pii impegnati ad osservare fedelmente la Legge in tutti i suoi dettagli, i farisei elaborano per primi in maniera sistematica, la dottrina della resurrezione dei giusti. Il premio o la punizione per l'uomo vengono posticipati a dopo la morte per cui il giusto ritornerà alla vita e il malvagio rimarrà nello Sheol. L'idea di risurrezione dei giusti proposta dai Farisei, viene limitata a Israele. Ne sono esclusi i pagani, i bifolchi e quanti vengono seppelliti fuori della Terra Santa. Poi, riflettendo ulteriormente, questo gruppo religioso affermerà che risorgono pure i pagani, ma per essere presentati di fronte al tribunale del giudizio: chi avrà osservato la Legge di Dio verrà ammesso nel giardino dell'eden (il paradiso).
GESÙ E LA RISURREZIONE
All’obiezione di Marta basata sul suo sapere, quello della tradizione religiosa giudaica, Gesù replica con una dichiarazione che segna il passaggio dal vecchio concetto di vita-morte-risurrezione al nuovo inaugurato dal Signore: Gesù le disse «Io Sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; Gesù non viene a prolungare la vita fisica che l’uomo possiede, sopprimendo o ritardando indefinitamente la morte. Non è un medico o un taumaturgo. Gesù viene a comunicare la pienezza della vita che egli stesso possiede, la vita divina, indistruttibile. Per questo Gesù inizia la sua risposta con ‘Egô eìmi, il Nome divino. Gesù è la risurrezione perché è la vita (Gv 14,6).
Questa qualità di vita quando si incontra con la morte, la supera. Alla comunità che è di fron-te alla distruzione fisica di Lazzaro, Gesù l’assicura che costui vive perché gli ha dato adesione (crede). Marta sperava in una risurrezione lontana. Gesù invece si identifica con la risurrezione che non è relegata in un lontano futuro, poiché egli, che è la vita, è presente. Poi Gesù, rivolto alla comunità dei viventi afferma: Chiunque vive e crede in me, non morrà mai. Credi tu questo? All'individuo che ha la vita definitiva Gesù lo assicura che non fa esperienza della morte. A quanti i danno adesione Gesù comunica il suo stesso spirito, la sua stessa vita che essendo divina non è minacciata dalla morte.
Per Gesù la morte non esiste. Marta ha questa fede? Gesù ha colto l'idea farisaica della risurrezione (ma cambiandone sostanzialmente il contenuto) per parlare agli ebrei, che potevano capire questa categoria teologica (cf. Mc 8,31; 9,31;10,34.). Ai pagani, Gesù non parlerà mai di risurrezione, ma di una vita capace di superare la morte fisica: “chi perde la propria vita per causa mia e del Vangelo la conserverà” (Mc 8,35), La vita eterna che Gesù offre, si chiama così non per la sua durata indefinita, ma per la qualità: la sua durata senza fine è conseguenza della qualità, e Gesù ne parla al presente. Non parla di una vita del futuro, come di un premio da conseguire dopo la morte se ci si è comportati bene nella vita, ma di una qualità di vita che è a disposizione subito per quanti accettano lui ed il suo messaggio e con lui e come lui collaborano alla trasformazione di questo mondo. Gesù dichiara: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6,54) . La vita proposta da Gesù è di una qualità tale che quando si incontrerà colla morte la oltrepasserà: “se uno osserva la mia parola non vedrà mai la morte” (Gv 8,51). Gesù assicura che chi vive come lui è vissuto, cioè facendo sempre del bene, non farà l'esperienza del morire. La permanenza della vita attraverso la morte è quel che si chiama risurrezione. Pertanto, secondo gli evangelisti, la vita eterna non è un premio nel futuro ma una condizione del presente. Gesù ne parla sempre al presente «Chi crede ha la vita eterna...» (Gv 3,15.16.36).
Gesù non risuscita i morti ma comunica ai viventi una vita capace di superare la soglia della morte, per questo Paolo può dire che i credenti sono già risuscitati: «Con lui ci ha anche risuscitati [= conrisuscitati] e ci ha fatti sedere [= consedere] nei cieli, in Cristo Gesù» (Ef 2,6); «Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Con lui Dio ha dato vita anche a voi...» (Col 2,12-13); «Se dunque siete risorti con Cristo...» (Col 3,1).
Questa realtà era talmente viva nella comunità cristiana che nei vangeli apocrifi si legge: “Chi dice: prima si muore e poi si risorge, erra. Se non si risuscita prima, mentre si è ancora in vita, morendo, non si risuscita più” (Vang. Filippo 90). “I morti non sono vivi e i vivi non morranno”(Vang. Tommaso, 11).